Luigi Danova: "Il nostro Toro? Era come una grande famiglia"
Un salto nel passato (neanche troppo remoto), ai tempi di un bel Torino, in grado di lottare per lo scudetto. In ciò consiste dialogare con una “bandiera” di quel Toro: Luigi Danova, alfiere torinista per nove stagioni e ben 340 presenze (delle quali 246 in campionato e 94 nelle varie Coppe), che lo posizionano al settimo posto nella graduatoria dei “fedelissimi” del Torino. Oggi il difensore lombardo (nativo di Sant'Angelo Lodigiano -vicino a Milano-, ma da tempo residente nella ridente Romagna) allena i Giovanissimi della Marignanese (compagine di San Giovanni in Marignano, cittadina non lontana da Rimini), insegnando calcio con la stessa perizia e la stessa classe di quando giocava.
Signor Danova, la prima domanda è d'obbligo: è vero che quel Torino era come una grande famiglia?
“Sì, era effettivamente così. Non eravamo solamente un gruppo di calciatori professionisti, ma amici, quindi potremmo affermare che eravamo anche una grande famiglia. Noi giocatori uscivamo a mangiare insieme, si usciva insieme alle rispettive famiglie, c'era molto affiatamento. Pensi che, nonostante siano passati più di trent'anni da quei tempi, siamo rimasti amici: ogni tanto ci si incontra nuovamente con Paolino Pulici, con Ciccio Graziani e con Eraldo Pecci (che peraltro risiede non lontano da dove abito io). Era, sostanzialmente, un calcio molto diverso da quello attuale”.
Possiamo dire (magari esagerando un po') che Lei è arrivato al Torino nell'anno “sbagliato”, cioè quello immediatamente successivo allo scudetto...
“Un anno sbagliato magari no, ma di certo sono arrivato l'anno successivo alla storico scudetto del 1975-'76, cioè il primo dopo la tragedia di Superga. Sono restato al Toro per nove anni, trovandomi benissimo e sfiorando il tricolore in due occasioni: la prima nella stagione del mio esordio in granata, la seconda nel 1984-'85, quando vinse il Verona. Nella mia prima annata al Toro arrivammo a 50 punti: un bottino di tutto rispetto, se calcola che il campionato aveva trenta giornate (quindi 60 punti a disposizione) e la vittoria valeva ancora due punti. Purtroppo la Juventus ne fece 51 e il nostro possibile bis svanì per un solo punto”.
Però visse comunque la festa-scudetto del 1976...
“Sì, ma da avversario! Infatti, nel giorno dello scudetto, ero in campo in quel Torino-Cesena 1-1, ma nella squadra romagnola. Pulici segnò il provvisorio vantaggio torinista, con un bel goal di testa in tuffo, anticipando il mio intervento (lo marcavo io), mostrando il suo fiuto del goal. Poi un'autorete di Mozzini (che non s'intese con Castellini) ci diede il pareggio. Quel 16 maggio 1976 festeggiammo pure noi, poiché giungendo sesti ci qualificammo per la Coppa UEFA: un traguardo straordinario”.
Per il Toro ci fu la partecipazione alla Coppa dei Campioni, che La vide tra i protagonisti.
“Superammo il primo turno con gli svedesi del Malmö, poi nel turno successivo fummo opposti ai tedeschi del Borussia Mönchengladbach, a quei tempi una delle grandi d'Europa. Perdemmo 2-1 all'andata in casa, mentre al ritorno, dopo essere rimasti in 8 per le espulsioni di Caporale, Zaccarelli e Castellini, riuscimmo a difendere lo 0-0”.
Un pareggio inutile per la qualificazione, ma utile per l'orgoglio, da Toro. E in porta andò Ciccio Graziani.
“Sì, effettuando anche delle parate, rimanendo imbattuto”.
La Sua militanza al Toro è stata di ben nove anni...
“Arrivai al Torino nel 1976-'77, restandoci fino all'estate 1985. Oltre allo scudetto sfiorato in quel 1977, arrivammo per tre volte di fila in finale di Coppa Italia, nel 1979-'80, nel 1980-'81 e nel 1981-'82. Poi, dai primi Anni Ottanta, pur facendo buoni campionati, non riuscimmo più ad essere in corsa per vincere lo scudetto (ad eccezione dell'annata 1984-'85), anche perché alcuni giocatori passarono ad altre squadre, venendo sostituiti da comunque validi giovani provenienti dalla Primavera granata. Dei cosiddetti vecchi restammo in pochi: in pratica, solamente io, Renato Zaccarelli e Roberto Salvadori”.
Ma era comunque un Toro combattivo.
“Certamente! Nessuno si tirava indietro, anche perché potevamo contare su una tifoseria unica al Mondo”.
A proposito di tifoseria: è vero che i sostenitori granata sono il dodicesimo uomo in campo?
“Senza dubbio. Il tifoso del Torino pretende che la squadra lotti, che ci metta impegno, che dia il massimo: se ciò accade, accetta anche un'eventuale sconfitta”.
Fra i vari stranieri che giunsero al Toro, dopo la cosiddetta “riapertura delle frontiere”, di quale è rimasto maggiormente impressionato?
“Di Leo Junior: un vero campione. Senza voler mancare di rispetto agli altri, ovviamente”.
E tra le tante partite disputate in maglia granata, quale Le è rimasta particolarmente impressa nella memoria?
“Non ho dubbi: il derby del 3-2, del 27 marzo 1983. Era la stagione 1982-'83. Stavamo perdendo per 2-0 a venti minuti dalla fine: pareva ormai tutto perduto, invece in pochi minuti riuscimmo a segnare tre goal, ribaltando la situazione e vincendo per 3-2. Realizzammo tre reti nel giro di tre minuti, o poco più: fu davvero una bella soddisfazione, perché quel Toro non era più quello di qualche anno prima”.
Oggi insegna calcio ai giovani romagnoli.
“Vivo in Romagna e alleno i Giovanissimi della Marignanese. Sono delle soddisfazioni”.